LIBRI RECENSIONI

IL CICLOPE di Paolo Rumiz

5 Agosto 2019

Un faro alto 120mt si innalza su un basamento di 2 mt x 10, un’isola che è poco più di uno scoglio rotta inevitabile nel Mediterraneo; oltre la brughiera c’è la roccia che precipita in mare, un farista e il suo assistente, i gabbiani, un asino. Unici abitanti e signori dell’isola e del cielo che di notte “grandina di stelle” e fanali fratelli. E’ questo lo scenario che ci descrive Paolo Rumiz, ne “Il Ciclope“.

Un libro fitto, introspettivo, duplice; ricco di dettagli narrativi all’interno di descrizioni scarne, ma sontuose al tempo stesso. Corposo, in esso si concentrano infiniti spunti di riflessione.

La cura lessicale si incastona in una costruzione semplice e disadorna.

Ne esce un contrasto talvolta impenetrabile alla prima lettura. Tutt’altro che difficile, è frutto di una sensazione di tale intensità, che occorre ritornare sulla pagina appena letta per capire e carpire fino in fondo il gusto di quello che Rumiz ci vuole trasmettere. Le emozioni che suscita sono così profonde e molteplici che è necessario rileggere per assaporare appieno il gusto delle parole, per non perdere neppure un’’immagine suggerita.

In questo libro Rumiz ci fa riscoprire che le parole vanno assaporate in tutte le loro dimensioni. Hanno un profumo, un sapore e impegnano lo sguardo del lettore quando lo scrittore dipinge con attenzione ciò che lui, per primo, vede.

Per questo Il Ciclope è un libro introspettivo. Solo in apparenza un diario di bordo, fatto di appunti giornalieri, racconta invece le sensazioni interiori dell’uomo a contatto con la natura regina delle giornate, le reazioni alla solitudine della vita che si conduce in un faro unico abitante dello scoglio.

La vita e il quotidiano sono infatti semplici, rispondono ai bisogni elementari dell’uomo, mangiare, riposare a cui si aggiunge la possibilità di meditare. Il silenzio che richiama il pensiero, e l’unica connessione possibile e reale è quella dell’uomo con la natura, sua madre. In questo modo l’uomo recupera la sua dimensione, sentendosi parte infinitesimale dell’immenso.

A questo isolamento fisico, pelagico, si aggiunge quello comunicativo. Nessun collegamento telematico, Rumiz lascia la tecnologia ai piedi dell’isola e vi sale solo con viveri e predisposizione all’ascolto.

Le tre settimane vissute nella “macchina di luce come Giona nella balena“, nell’essenzialità dei ritmi naturali, sono percepite come tre mesi. Il tempo è dilatato dall’assenza di internet, il silenzio è rotto solo dai suoni e dalle voci della natura. Siano esse animali o degli elementi. I venti sono chiamati per nome, diventano familiari e Rumiz lascia che siano loro a creare l’atmosfera delle sue peregrinazioni mentali, delle riflessioni. La pioggia ha ritmi e movimenti artistici, i colori e i profumi diventano esperienza sensoriale che fonde l’uomo con l’ambiente che lo circonda. Diventano amici. Sono compagni e artefici di metamorfosi definitive dell’anima, inevitabili quando vivi al cospetto della strapotenza della natura. “il senso di inadeguatezza è assoluto e genera un misterioso ritegno” che rende impossibile usare tutte le parole necessarie a descrivere la grandezza che gli occhi hanno osservato e l’anima colto.

Il rapporto con l’isola è così viscerale che genera gelosia, possesso. Non sarà Rumiz a svelare di che Isola si tratta, e io manterrò il suo segreto. All’inizio del libro lui ci chiederà di rispettare la sua ritrosia a dirci dove si trova “ora dovrei dirvi dove sono (…) non chiedetemi altro. Voglio che fatichiate a trovarla, che la navigazione sia ardua, che vi perdiate nei libri prima che negli arcipelaghi. Vi prego, dunque, nel caso la trovaste, se siete affezionati alla mia scrittura e non volete che un luogo benedetto sia invaso dall’orda di infedeli, non ditelo a nessuno. E se doveste rompere il patto e dire forte quel nome, vi maledirò (…) farò di tutto per smentirvi“. Instaura così, una complicità con il lettore, regalandoci un viaggio ineguagliabile. Sospesi tra realtà e narrazione letteraria è indistricabile il legame tra fantasia e realtà che vive il lettore.

Se non sei in un luogo, sei in tutti i luoghi. E questa è la meravigliosa sensazione che il Ciclope regala al suo lettore.

Un Rumiz ottimo in veste di scrittore, il cui guizzo giornalistico, come un’esigenza primaria, zampilla dalle pagine del libro dove sottolinea la necessaria tutela da adoperare con un mare ormai allo strenuo delle sue forze “sfiancato da troppe reti“, ridotto a sterile prateria con una scarsa pescosità, percorso senza rispetto dalle grandi navi che ormai violano anche le parti più recondite del mondo, dove denuncia l’appiattimento di emozioni, orientamento e gusto della scoperta generato dalla tecnologia, quest’ultima responsabile persino di aver ridotto il mediterraneo a due sponde, all’opposizione di due rive. Lui, il Mare Nostrum, che già nel nome è inclusivo, da sempre crocevia, terreno di integrazione e favola mitologica, ridotto a due sponde, svilito da una triviale e arida bipolarità. Con un linguaggio che richiama il mito, una narrazione a tratti poetica, niente è lasciato al caso dall’utilizzo di parole e costruzioni linguistiche che richiamano culture, esperienze di vita e racconti di viaggi personali e altrui. Il Mediterrano che ospita i fari più belli del mondo e sviliti da uno scarso amor proprio al cospetto di quelli nel resto del mondo. Quello che colpisce è il costante richiamo non solo alla macchina di luce di cui è ospite, ma a tutte quelle dell’area marina. Un richiamo che riguarda anche la vegetazione, i cibi, i colori del mare, il carattere dei venti e degli uomini alla stessa latitudine di affaccio sul bacino mediterraneo. Le abitudini, tutte le caratteristiche culturali a unico comune denominatore: il Mediterraneo. A sottolineare l’unicità di un cultura millenaria, le tradizioni comuni, l’omogeneità e il desiderio e la speranza che questo imprinting rimanga tale ancora a lungo, per sempre. 

Rumiz e il suo amico Kyklops

L’atmosfera del libro è bucolica e marittima al tempo stesso. Chi legge Il Ciclope rimarrà incantato dalla mascolinità delle descrizioni, nel senso della loro efficacia diretta e dal dolce, artistico e poetico richiamo alle sensazioni primordiali dell’essere umano, ormai sopraffatte dalla tecnologia. Un mix narrativo coinvolgente per questo libro che possiamo definire solido, bello nel senso pieno del termine. Da leggere e rileggere subito, che ci obbliga a fermarci e riflettere, a cercare anche noi il nostro faro in cui ritrovarci. Un libro che dilata il tempo proprio come il tempo che lo scrittore ha sentito dilatarsi nella sua esperienza in questo avamposto che diventa un luogo sicuramente evocativo e metaforico della necessità di allontanarsi dai ritmi tentacolari di oggi, dalle sue distrazioni di massa per tornare a percepire, e a percepirsi, come entità singolari e recuperarsi un senso autentico

Al termine delle tre settimane, di questo tempo di cui l’autore è “ridiventato padrone“, se ne andrà, partirà “come i Greci, senza mai girarsi verso l’isola“: “non devi guardare la riva che lasci o soffrirai di nostalgia“.

Con questo libro, Rumiz, regala al lettore, la possibilità di trovare un rifugio e al tempo stesso di riassaporare l’essenza partecipata della vita. Un’esperienza indimenticabile, #civediamotralerighe

TITOLO: Il Ciclope, AUTORE: Paolo Rumiz, EDITORE: Feltrinelli Editore, PAGG.: 149, PREZZO: 12,75.

Acquistabile online sul sito LaFeltrinelli

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