LIBRI RECENSIONI

PERLE AI PORCI – Kurt Vonnegut

10 Agosto 2019

Recensire Kurt Vonnegut è un’impresa difficile e un banco di prova, al tempo stesso. È arduo riassumere i suoi contenuti e non ripetersi nel giudicarlo un autore mastodontico della letteratura americana, uno dei suoi capostipite e un maestro di denuncia sociale e culturale del mondo e della società statunitense. 

Perle ai porci”, titoli originari ‘God Bless You Mr Rosewater‘ o il letterale ‘Pearls before swine’, è scritto da Vonnegut nel 1965 e tratta tematiche ancora oggi molto attuali. Il protagonista è Eliot Rosewater erede rampollo di una famiglia miliardaria dell’Indiana, è messo a capo della omonima fondazione dal padre, anziano senatore, per salvare il patrimonio dal fisco. Una storia abbastanza ordinaria resa unica dal personaggio che esce dalla macchina da scrivere di Vonnegut in modo magistrale, come l’essere più particolare e controcorrente che spariglia tutto ciò che ci si aspetterebbe da lui, dal suo futuro e dalla sua vita personale; talmente esilarante che perfino il suo analista rinuncia a curare. Reduce dalla seconda guerra mondiale è appassionato del Corpo dei Pompieri; il cui rapporto con loro è un leit motiv che permea il racconto intero e che nasconde, anche in questo caso, una  piega surreale: “a nord del cimitero sorgeva il vecchio teatro lirico Rosewater, una lignea torta nuziale, spaventosamente combustibile, che era stata convertita in caserma dei vigili del fuoco”.

Perfino la descrizione della morte della madre di Eliot è esilarante: “L’asserzione che Eliot aveva ucciso la sua madre adorata era, sommariamente vera. All’età di diciannove anni, Eliot portò sua madre a fare un giro in barca nella baia di Cotuit. virò. Il boma, tagliando l’aria, fece volare sua madre fuori bordo. Eunice Morgan Rosewater colò a picco come un sasso.”

Eliot è capace di dare un senso a sé stesso, facendo l’esatto opposto di ciò che ci si aspetterebbe da un uomo straricco, si dedica infatti a una cittadina composta da invisibili, poveri disgraziati più o meno equilibrati, che non hanno avuto la stessa fortuna nella vita. Personaggi caratteristici, creati con precisione chirurgica da Vonnegut sotto il profilo umano e mentale. Eliot istituisce un centro di ascolto e aiuto a nome della Fondazione e aiuta così questa piccola comunità  che, riconoscente, lo eleggerà a proprio salvatore. Ovviamente questo clima di umanità è corrotto dalla figura di un giovane avvocato rampante, Norman Mushari, assetato di potere e di danaro che tenterà, a ogni costo, di far dichiarare pazzo il Rosewater e mettere così le mani sulla sua Fondazione e i suoi soldi, fomentando un lontano parente, Fred, di diversa fortuna esistenziale. 

Ne deriva un racconto grazie al quale è impossibile non sorridere. Si tratta però di risate amare, che fanno riflettere sulle pochezze e sulla condizione degli uomini, della società: “alludo a quel suo insistere sul fatto che bisognava dire la verità sul conto di questa vostra malandata società, e che le parole per dirla si potevano trovare sui muri dei gabinetti”. Vonnegut irride alle defaillances della natura umana e ce la descrive in un modo che non la porta mai a essere opprimente. Con un abilità di scrittore straordinaria, questa irriverenza domina il giudizio sull’unicità dello scrittore, la sua ironia, in modo inevitabile, è divenuta la sua quota caratteristica. 

foto Getty Images/Sean Gallup

Il sarcasmo, che talvolta sfocia in un cinismo soave, mai definitivo, l’utilizzo di ossimori, di paradossi, permea e insaporisce la trama: “le palpebre si facevano pesanti mentre Eliot leggeva “Feconda una radice di Mandragora”. Lo stava sfogliando a casaccio, nella speranza di trovare accidentalmente le parole che avrebbero dovuto far digrignare i denti ai farisei. Trovò un passo dove si condannava un giudice per non aver mai portato all’orgasmo la moglie, e un altro nel quale un dirigente di un’agenzia pubblicitaria responsabile di un sapone da reclamizzare si ubriacava, si chiudeva in casa e indossava il vestito da sposa di sua madre.” 

L’irriverenza con cui maneggia ad arte le tematiche più scabrose, l’altra faccia del sogno americano. Vonnegut è soprattutto questo. La capacità di narrare gli aspetti peggiori dell’animo umano senza concedere loro la sua scrittura; che rimane bella, scorrevole, tutt’altro che appesantita dai concetti che trasmette. Questultimi sono numerosi in Perle ai Porci, il danaro e ciò che genera di negativo negli uomini, l’amore, il tema molto caro all’Autore della Guerra, la follia e l’ordinarietà della mente umana, l’utopia. Un insieme ricco e sfaccettato che sollecita la riflessione e aggancia subito il lettore fin dall’incipit, grazie a una scrittura in grado di creare suspence e curiosità sin dalle prime righe e coinvolgere con un clima di scherno che proseguirà nella narrazione dell’intera storia: “A proposito di Pisquontuit: una volta era esistito un capo indiano che si chiamava Pisquontuit. Questo Pisquontuit portava un grembiule e viveva, come la sua gente, di molluschi, di lamponi e dei frutti delle rose. (…) L’agricoltura era una novità. La stessa cosa poteva dirsi, per i wampun, gli ornamenti di penne, e l’arco e le frecce. L’alcol fu la più bella novità di tutte. Pisquontuit morì alcolizzato nel 1638”.

Non so perché, procedendo con la lettura, mi sia venuto automatico il raffronto, con Raymond Carver, altro grande autore americano. A mente delle sue letture si può capire le differenze tra i due autori e i loro punti di contatto. 

Entrambi mettono a nudo, non accarezzano affatto, la cultura e società statunitense, facendone emergerne i tratti più controversi, più miseri, più discutibili. Entrambi mettono in luce l’altra faccia del sogno americano, come mi piace definirla, e lo fanno con uno stile e con un passo narrativo simile e completamente diverso, al tempo stesso. Entrambi capaci di una scrittura asciutta, diretta, mai prolissa, sapientemente dosata e dotata di dipingere in modo scenografico le scene e le azioni dei personaggi, divergono tuttavia per il tono con cui scrivono. 

La mancanza di via d’uscita, la pesantezza delle riflessioni e condizioni in cui si trovano i personaggi carveriani, che lasciano il lettore con lo sguardo perso, niente hanno in comune con l’ironia di Vonnegut. Il suo modo sarcastico di affrontare e presentare i personaggi e le loro trame, che a tratti rasentano il delirante, restituisce al lettore una sensazione duplice; lascia percepire la bassezza della condizione umana, ma non lo incupisce, gli lascia una via d’uscita

Anche nel finale abbastanza inaspettato di questo libro, Vonnegut è sempre capace di inquadrare il messaggio che gli sta a cuore veicolare: la natura è umana è sì capace di turpi azioni, ma anche di azioni utopistiche che ne riportano in alto la grandezza d’animo. Non possono essere sempre spiegate, né comprese fino in fondo, bensì intuite e constatate, come fanno i personaggi che roteano intorno a Eliot Rosewater, il padre, la moglie, i suoi clienti. Se la vita descritta da Carver è tragica, quella descritta da Vonnegut è tragi-comica

Lo scrittore, come un pugile, non risparmia i suoi fendenti, ma non chiude mai il lettore alle corde. 

Il grande dono dell’ironia che gli Dei hanno sparso troppo poco sulla Terra, è stato elargito a grandi mani a Kurt Vonnegut, perché la sua scrittura possa portare il lettore sempre un passo avanti rispetto alle proprie criticità.

Vonnegut concede al suo lettore di voltarsi indietro per capire i propri lati oscuri e con una risata,  che rimpiazza e profana la bellezza del Principe di dostoevskijana memoria, salva sé stesso e il mondo. 

#civediamotralerighe

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