“E’ questo l’abbraccio casuale che segna la caduta della civiltà mondiale?“
Ho finito di leggere (per provocazione, sull’eReader) l’ultimo di Don De Lillo, IL SILENZIO. E mi ha suscitato svariate considerazioni.
Innanzitutto, sulla scrittura, il cui registro si adatta al contesto emotivo, via via che esso muta nell’arco del racconto. Se in alcuni punti è sincopato, paratattico per creare tensione e progressione, distacco, poi si allunga, si distende di nuovo, articolandosi nel momento dei singoli monologhi a cui cedono i personaggi verso la conclusione del libro, per avvicinare l’emotività.
Si è già detto molto di questo libro; c’è chi lo ha definito distopico, profetico (ricordiamo che De Lillo lo ha consegnato all’editore pochi mesi prima della pandemia, da qui la definizione secondo alcuni e il riferimento a ciò che stiamo vivendo), e su entrambe non sono molto d’accordo. Secondo me, se lo si definisce in questo modo, si fa una forzatura.
Ma cosa rimane allora dalla lettura de Il Silenzio?
Io credo ciò che eravamo. Ciò che siamo. Non ciò che ci accadrà o diventeremo.
Non viene più quasi niente fuori dal nulla. Quando un elemento mancante viene a galla senza l’ausilio di alcun supporto digitale, ognuno lo annuncia all’altro con lo sguardo perso in lontananza, l’aldilà di ciò che si sapeva un tempo e che è stato smarrito.
Ne Il silenzio troviamo come ci ha modificato l’uso massiccio e dipendente della tecnologia. Di come, seppur utile e talvolta risolutiva, ci abbia anche tolto indipendenza, autonomia, sicurezza.
Nella storia si parla di uno strano giorno in cui, all’improvviso, e per cause che nessuno riesce a comprendere, la tecnologia globale va in black out. Non si capisce perché, il libro stesso non lo spiega, ci fa trovare solo di fronte al fatto compiuto. Niente funziona più. Schermi neri, TV spente, tutto ciò che dipende da un sistema informatico va in tilt. Si blocca.
Le persone si riversano in strada, vagano alla ricerca di una ragione; alcune reagiscono anche in modo violento, ma non eccessivo.
E c’è chi si rifugia in casa, si “sospende”, attende, e rimane a fissare la TV e lo schermo nero come se in qualche modo, ancora, trasmettesse qualcosa, incapace di accettare quell’interruzione, talmente assuefatto dalle stesse visioni, ripetute, che è in grado perfino di recitare da sé quello che avrebbe sentito dire; così tante sono state le volte in cui ha passivamente guardato il Super Bowl, che lo sa a memoria.
C’è chi non è più capace neppure di contare le scale che sta salendo. Quando lo faceva da bambino lo aiutava a confrontarsi con qualche pensiero, a risolvere qualche quesito. Adesso sale, conta e nulla più. La mente è vuota.
Quante volte ci rendiamo conto che mentre facciamo una qualsiasi cosa in realtà siamo presi dai nostri device? Al punto da non ricordare più niente di quello che abbiamo vissuto perché, in realtà, non lo abbiamo vissuto, presi dal guardare gli schermi.
De Lillo parla di memoria, dunque; non avremo più memoria.
Ed ecco perché i monologhi finali dei 4 personaggi (due coppie di amici e un ex allievo studente di una dei protagonisti) sono lì a ricordare, a sforzarsi di farlo, cercando di capire e riassumere, anche emotivamente, quello che stanno vivendo. Per conservarlo nel futuro.
E’ emblematico che De Lillo faccia fare ai suoi protagonisti dei monologhi, sono la prova della loro incapacità di interfacciarsi. Forse perché manca loro il tramite tecnologico?
De Lillo rimarca, in più scene, l’immagine della folla “non collettiva”, ma un insieme di persone che si scontrano, non si incontrano. È così, in casa, per Jim e Tess una delle due coppie protagoniste, è così, in strada, per le persone che si affollano nel tentativo di capire cosa stia succedendo. Non sono una collettività, non sono una famiglia, sono individui scollati l’uno dall’altro che corrono ognuno sulla propria direttrice che non interseca quella dell’altro. È evidente, manca loro la mediazione tecnologica. Mancano app di instant messaging, mancano le chat, mancano le mail.
Ho avuto la sensazione netta, che Don De Lillo non sia profetico in questo libro, non descrive quello che accadrà senza la tecnologia, ma ha descritto quello che sta accadendo con.
Un’umanità dipendente che è già legata culturalmente a strumenti, non ad altri uomini.
Il Silenzio è l’immagine non di cosa accadrà all’umanità, ma di cosa le e già accaduto e che metteremo a fuoco in modo lucido, solo quando tutto quello che De Lillo immagina, tecnicamente, accadrà.
Non si tratta di un blackout tecnologico, ma di un blackout umano. Ed è già tutto qui; sta già accadendo e De Lillo lo racconta in modo asettico, chirurgico. Tutt’altro che emozionale. Realista, quindi, tutt’altro che distopico o profetico. De Lillo ci fa la cronaca di ciò che siamo (diventati) e non ce ne accorgiamo.
Una realtà in cui i personaggi (noi) faticano a riconoscersi in uno specchio tradizionale, perché rimanda loro un’immagine che non conoscono e non riconoscono perché non è fedele a quella che restituisce il monitor narcisistico, davanti al quale nessuno è quello che è veramente, ma si esprime solo in ciò che può essere manipolato, alterato, filtrato.
In parte, i personaggi sono il frutto di ciò che oggi ci ha reso la Rete. È la diffusione, ad esempio, del complottismo che prolifera dove c’è buio, dove la poca chiarezza della verità spinge a pensare alcuni che tutto può essere una soluzione a ciò che accade. E soprattutto si liberano le paure recondite, quelle ormai di dominio comune. Il personaggio di Martin, in questo, è simbolico.
potrebbe essere il governo degli algoritmi. I cinesi. I cinesi lo guardano, il Super Bowl. Loro giocano a football americano.
Nell’incipit, De Lillo riporta una frase di Einstein secondo la quale la quarta guerra mondiale, al netto della terza che non sa come sarà combattuta, si combatterà con pietre e bastoni. Tento un’ipotesi: forse perché gli uomini non saranno più in grado di comunicare con la parola, e tale sarà la regressione intellettiva dovuta all’uso indiscriminato e pervasivo della tecnologia, che torneremo proprio come erano i nostri primitivi? Sembra plausibile, anche in virtù degli ultimi dati diffusi in materia di involuzione intellettiva, avvenuti negli ultimi due decenni e coincidenti proprio con l’uso dei mezzi tecnologici.
Il mondo dunque può finire, e Don de Lillo ci dice che sarà così quando scenderà Il Silenzio. Ma non quello tecnologico, bensì quello umano, a cui, probabilmente ci sta conducendo la tecnologia. Finirà il mondo quando sarà finito l’uomo, nella sua capacità distintiva: la parola, il dialogo. Non a caso i dialoghi sono dei finti botta e risposta, perché in realtà non c’è un vero scambio, ma ripetizione meccanica di concetti, che contribuisce a rendere l’atmosfera surreale e amplifica il senso di solitudine e smarrimento creato dal blackout.
il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?
L’atmosfera così rarefatta sembra suggerire un blocco umano identico e corrispondente al blocco tecnologico.
E in questo prevalere dell’atmosfera sulla struttura di tutto il libro, che può essere letto in qualche ora, risiede l’altra caratteristica di essere più che un romanzo (seppur breve) un racconto lungo; insomma Don De Lillo ci ha regalato una novella ultra contemporanea che fa molto riflettere e, si spera, ci porti a una forte, e costruttiva, autocritica nell’attuale modo di vivere la tecnologia. Chissà, magari anche a un’inversione di marcia. Certo, in un momento come quello attuale in cui siamo totalmente dipendenti dalla tecnologia per fare qualsiasi cosa, chiusi in casa da oltre un anno a causa della pandemia, è difficile vederne i lati oscuri. Eppure, ci sono. Parola di Don de Lillo.
TITOLO: Il Silenzio, AUTORE: Don De Lillo, EDITORE: Einaudi, PAGG.: 112, PREZZO: 14,00€, acquistabile qui
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