leggere la dozzina del premio Strega 2021
Scrivo questa breve recensione, trovando il coraggio dopo una notte insonne, e una mattinata che, a ruota, “sembrava difficile”. Un po’ come Sembrava bellezza. Solo che la mattinata, poi, si è risolta, mentre la sensazione, non ancora chiara, su questo libro finito di leggere pochi giorni fa, ancora resiste.
Parliamo prima della mattinata, che si è aperta con l’ipotesi che il mio frulla-latte, (si lo so si chiama monta, non frulla, latte, ma io non sono sempre a norma con le parole) si fosse rotto.
Direte: “Eh vabbè, si ricompra dai, poco male”.
“Ma no! Quello è il mio montalatte storico! Quando l’ho preso non-mi-ricordo-manco-più-io-quando era uno dei primi e agli altri, quando lo vedevano, sembrava una puntata dell’oggetto misterioso!! “, risponderò.
Quindi la rottura era un’opzione inaccettabile! Ma ho armeggiato un po’ e, alla fine, come d’incanto il rumoretto FRRRRRRRRRRR è tornato, e con lui il frullalatte!! Sommo giubilo. Vabbè, ma Sembrava bellezza che c’entra?
C’entra per due motivi: leggerlo è un po’ come entrare in un frullatore. Lo stile di Ciabatti, secondo me voluto molto più di quanto non sia una voce naturale, è un po’ così. Per carità, ognuno è come è, però dovessi dire che amo proprio alla follia chi mi obbliga a leggere come dice lei/lui, direi che no, almeno non quanto amo il mio frullalatte.
Apprezzabile, è chiaro, una voce così personale, però non è costante nel corso del romanzo e questa alternanza con una voce liscia che sbuca ogni tanto me la fa sentire poco autentica. Ecco. Ciò che ho avvertito è stato un po’ questo. Non me ne voglia l’autrice, che rimane una brava scrittrice, con buona pace mia e del mio frullalatte. Il secondo motivo è che tutto ciò che innova è destinato, prima o poi, a diventare un classico che, come tale, si ripete. Il montalatte non lo conosceva nessuno e adesso lo vendono da Ikea, i temi di Ciabatti de La più amata, ritornano in Sembrava bellezza, anche se mescolati e spalmati su altri personaggi, e sembrano essere già un classico dell’autrice. Il rapporto perfezione/imperfezione; il peggio negli esseri umani, il non-si-può-dire; mettere in luce le zone d’ombra, il percorso rifutarsi-accettarsi-rifiutarsi nell’accettazione o accettarsi nel rifiuto; la maternità, imperfetta; l’adolescenza, che lo è altrettanto. Immaginare un evento traumatico che quasi dia un segno a esistenze altrimenti scialbe (in una c’è la violenza, nell’altra c’è la scomparsa). Lo sfondare la quarta parete, parlando direttamente al lettore e alternandolo ai soliloqui in cui l’autrice parla a se stessa, reinterpretando il flusso di coscienza tradizionale col suo stile convulso, a scatti, molto più che sincopato. E così via dritti a quel frullatore e al montalatte di cui al punto primo.
Insomma, devo ancora stabilire, se sia un pregio o un difetto, far leggere con fatica, obbligare a forzarsi per arrivare in fondo a una storia. Ho letto e sentito molti lettori dire di no. Molti hanno abbandonato, altri continuato, ma forzandosi.
Io ci devo ancora pensare, magari su un cappuccino caldo fatto col montalatte.
Non so se sono l’unica a pensarla così. Ho sentito anche molto entusiasmo intorno a questo libro e io stessa ne ho apprezzato alcuni passaggi, indubbiamente degni di nota. Del resto Ciabatti quelli come me, che rimangono tiepidi alla sua lettura, li affronta a viso aperto:
se solo voi detrattori foste in grado di leggere le metafore, sforzatevi
Insomma sembra che la filosofia del doversi sforzare per capire ciò che si legge, è proprio convinzione dell’autrice. Del resto Ciabatti in questo romanzo è un po’ una nemesi; un novello Conte di Montecristo, colei che in età matura torna nella vita delle amiche di scuola come donna di successo, al posto della ragazzina informe, anche un po’ disagiata, che si confrontava con le amiche alte, bionde e snelle con fisici statuari e ne usciva sempre perdente. Ora però non le subisce, sfoga la sua rabbia, per quell’esclusione, ma continua, senza saperlo, a essere diversa dagli altri, prima nel male, adesso nel bene è sempre colei che si sente emarginata, come all’epoca in cui era più emarginata delle emarginate:
E allora io – sempre nella fantasia – raddrizzo le spalle, schiarisco la voce, dico no. Impossibile dimenticare, dico. Come cancellare il momento in cui candidata a rappresentante di classe contro due emarginate (Ciriello di Napoli, Curcio diabetica), sicura di vincere, sulla lavagna vicino al mio nome non compare alcuna x?
parlo agli ex compagni di scuola, in un discorso inferiore che dura da anni, in una fantasia che me li riporta davanti, ricchi, superbi. Assemblaggi di ormino addomesticati, niente in loro era fuori controllo.
Ma anche la tensione che semina sul futuro di Livia, la sorella perfetta della sua migliore amica Federica, colei che, al solo apparire, livella lo status di tutti gli altri a sbiadite comparse, per quanto lei racchiude in sé la perfezione estetica dell’essere donna. O l’abitudine a spiegare due volte la stessa cosa, ma con uno stile diverso, con un passo narrativo diverso, quasi a sincerarsi che tutti possano capire bene quello che vuole dire o magari perché non vuole scegliere un solo modo e così prima si lascia andare alla voce più studiata e poi a quella più colloquiale.
C’è poi, altro pregio indiscusso, la sincerità nel descrivere i rapporti tra donne. Sono quello che sono: un misto indistricabile di amore-odio, conditi da invidia, gelosie, confronti e paragoni continui, dai quali, fra l’altro, anche a confronto della peggiore, lei esce ancor peggio, proprio per quel suo odiarla. Messaggio chiarissimo: le donne che odiano le altre donne, sono solo loro le peggiori. Ma sono solidali, sanno esserlo e a volte non lo sanno, ma lo sono. E’ bello essere
un’unica ragazza forte
Bella anche l’immagine del
(…) trolley con le rotelle rotte dietro, peso morto, come trascinare a forza un bambino che non vuole venire.
metafora di tutto ciò che ci portiamo dietro nella vita. A fatica, pesante, tutto quello che non fila e non è filato liscio. Che arranca. Talvolta anche l’esistenza stessa. Come la botola, anche la botola è una metafora ricorrente o il cigno, quell’urlo che ogni tanto appare tra le righe in cerca di qualcosa che sembri bellezza, come l’animale che fuori è perfezione:
datemi un cigno
Un insieme di andirivieni temporali impressi sulla pagina con un ritmo spezzato, che frantuma l’attenzione e che il più delle volte è introdotto al lettore, spiegato prima (e via un altro motivo di perplessità). O quei momenti che in qualche altro libro possono sembrare spiegoni e che Ciabatti trasforma in ammissioni, in confessioni, in debolezze ammesse (qui sono positiva, penso il buono, anche se…). Come se quello che prima era stato raccontato di pancia, poi fosse razionalizzato e allora occorre anche cambiare il modo in cui descriverlo. La parola che segue l’emozione dello scrittore e che non lascia niente di non detto, lo svela bene. Niente di evocativo. Il compiacimento nel confondere il lettore, parlando addirittura di manipolazione ai suoi danni compiuta dalla narrativa.
Ma c’è una frase, che più di ogni altra, mi risuona dopo averla letta e con cui identifico la lettura di questo libro. E che ancora una volta non ho codificato, in positivo né in negativo:
(…) se qualcuno stesse dietro a tutte le mie affermazioni
Insomma, molta carne al fuoco in questo libro, forse anche troppa. O forse troppa per me. Possibile.
Resta comunque la domanda regina su tutte, che poi proviene dall’esperienza di lettrice: è’ giusto pretendere la fatica dal lettore oppure aveva ragione David Foster Wallace, quando diceva che ok lo stile, ok la voce, ma il lettore quando prende un libro si vuole divertire, nel senso di dedicare il proprio tempo a una cosa che lo faccia sentire felice?
TITOLO: Sembrava bellezza, AUTORE: Teresa Ciabatti, EDITORE: Mondadori, PAGG. 240, PREZZO: 17,10 Acquistabile su IBS
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