Se leggi un c.d. classicone, è difficile restituirne qualcosa che non sia già stato detto da qualcuno più autorevole di te. Accade se vuoi dirne bene, accade se vuoi dirne male. Nel secondo caso, però, è ancora più ardua la cosa, perché c’è quell’aspettativa di argomentazione cui non si può scappare, che trasforma un’insignificante opinione personale in una critica accettabile e un commento come un altro, in una recensione.
Purtroppo quasi sempre avviene che si scambiano opinioni personali per letture oggettive e non si trovano argomenti che ne sostengano la validità. Può accadere allora che ci si nasconda dietro a un dito, che in questi casi è nascondersi dietro quello che ha già detto qualcun altro, magari competente e noto, e che si crede, dica la stessa cosa che vorremmo dire noi, che non riusciamo a farlo. I motivi sono tanti, ma qui li lasciamo alla fantasia di chi legge.
Ecco allora che il panegirico si adatta bene alla lettura di un classicone immortale come Il Conte di Montecristo. Libro affascinante, coinvolgente, su cui si sono misurati lettori di ogni età ed estrazione, su cui la critica non si è neppure arrovellata più di tanto, giusto perché, trattandosi di narrativa di intrattenimento (segnatevelo, perché è importante), cosiddetta di appendice, non occorrerebbe neppure scomodare “illustrità” (scusate il neologismo) di vario genere per cavare chissà quale ragno, da chissà quale buco.
Sono quasi duecento anni che lo si legge, e lo si trova, azzardiamo un pacificamente, un libro di immortale valore in campo letterario, nel suo genere (segnatevi anche questa precisazione, che dopo torna utile). E a nulla valsero le schermaglie tra Umberto Eco e Italo Calvino, che lo coinvolsero, a penna del primo, nelle invettive reciproche sulla validità o meno del genere romanzo in generale, perché chiunque sappia leggere, e abbia letto, capito e meditato Eco, conosce senza dubbio alcuno la sua passione per i ragionamenti paradossali, per lo spingere le argomentazioni all’estrema punta, salvo affermare poi il contrario di ciò che aveva messo in premessa. Un gioco dialettico di cui era maestro, assieme all’ironia, quella vera.
Di questo gioco all’invettiva tra scrittori, è caduta vittima una frase, forse tra le più estrapolate dell’universo terraqueo; rimasta, per questo, orfana della sua interpretazione autentica, e accolta, con favore, nella grande famiglia delle mistificazioni.
La frase in questione è:
“ Il Conte di Montecristo è senz’altro uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra parte è uno dei romanzi più mal scritti (segnatevi questo corsivo, non lo usa a caso, ve lo spiegherete alla fine ndr) di tutti i tempi e di tutte le letterature.“
I detrattori del Montecristo, in cerca di argomentazioni di cui spesso sono orfani, si appigliano (anche se non so quanto ne conoscano anche la fonte, di solito i wikiquotiani si cibano di citazioni de relato) proprio a questa frase, due parole, dette da Eco, nel suo saggio (Sugli specchi e altri saggi) scritto contenuto in una raccolta di discorsi e interventi sulla struttura del romanzo, a confutazione e sostegno, che poi si inserì anche in quello sfoggio dialettico con Calvino.
Ebbene, secondo tal guisa di lettori, Il Conte di Montecristo sarebbe un libro scritto con i piedi (tenete duro se siete suoi sostenitori, non sanno ciò che dicono né di Eco né di Dumas) e a confermarlo sarebbe proprio questa frase. È così? No, non è così, desolè.
Il Conte di Montecristo, è ben scritto, non si tocca ai più lettori. Anche ai più avveduti. E lo dice Eco. Dunque, chi si fa scudo nel modo sbrigativo del tempo di una googlata, di un’interpretazione malevola da parte del grande storicomedievista-semiologo-scrittore-bibliofilo-filosofo-accademico-saggista porta in giro un colossale fraintendimento, privo di conoscenza.
Tutto ha inizio quando Eco fu chiamato da Einaudi a tradurre il Montecristo, impresa che dopo solo 100 pagine si tradusse invece in una sua rinuncia. Proprio quell’impegno gli fece apprezzare da vicino come sia scrittura, che struttura del Conte di Montecristo fossero inscindibili. Malgrado passibili di essere giudicate opinabili, alla luce di criteri moderni e non appartenenti a quel genere letterario specifico e quindi di dubbia correttezza, Eco si rende conto di quanto esse siano inviolabili, pena la colpa imperdonabile di distruggere il valore principale che fonda l’immortalità e il pregio del testo.
“La ridondanza”, è ciò su cui si sofferma Eco per la sua disamina. Quell’indugiare, ripetere, scrivere più volte la stessa cosa, in modo condito, oltremodo corposo, l’uso ripetitivo degli stessi aggettivi, divagazioni aperte e volte lasciate tali. “Pieno di zeppe” lo definisce, nel costruire il suo ragionamento a contrario.
Ma era solo una premessa, il corollario da confutare, dopo aver ragionato e approcciato il testo, per riconoscere la validità, anche e soprattutto, di quella scrittura, proprio di quella ridondanza.
Eco seppe riconoscere, non senza una certa ammirazione per Dumas, che proprio quello che può essere giudicato come un difetto dell’opera, è invece la cifra del libro. La quota stilistica imprescindibile che lo ha reso l’indubbio romanzo di pregio che è da generazioni. Quello stesso libro, senza quella scrittura, sarebbe stato insignificante, come quasi tutte le altre opere dello stesso genere, e coeve.
Si chiede Eco:
“Se fosse riassunto, se la condanna, la fuga, la scoperta del tesoro, la riapparizione a Parigi, la vendetta, anzi le vendette a catena, avvenissero tutte nel giro di due o trecento pagine, l’opera avrebbe ancora il suo effetto, riuscirebbe a trascinarci anche là, dove, nell’ansia, si saltano le pagine e le descrizioni (si saltano, ma si sa che ci sono, si accelera soggettivamente ma sapendo. Che il tempo narrativo. È oggettivamente dilatato)?
La sua risposta è adamantina, quanto secca, perentoria:
“Si scopre così che le orribili intemperanze stilistiche sono, si, “zeppe” ma le zeppe hanno un valore strutturale, come le sbarre di grafite nei reattori nucleari, rallentano il ritmo per rendere le nostre attese più lancinanti, le nostre previsioni più azzardate, il romanzo dumasiano è una macchina per produrre agonia, e non conta la qualità dei rantoli, conta il loro tempo lungo. È una questione di stile”.
(Ah quindi siamo di fronte a uno stile? Accidenti! Ma allora cosa hanno capito i detrattori?)
Una scrittura, quindi, tutt’altro che disprezzabile, una scrittura che è struttura, che è tutta l’opera artistica dell’autore. Irrinunciabile, impossibile da ovviare se si vuole preservare la bellezza del libro. Una struttura che ha permesso a Dumas di scrivere un romanzo che ha varcato la soglia del tempo a differenza di quelli dello stesso genere che pure nessuno ricorda e non sono valsi l’inserimento a pieno titolo nella letteratura francese.
Eco, arriva a queste conclusioni in ultimo paragrafo dedicato al Conte di Montecristo, che titola: Un Romanzo Ben Scritto; e non è ironico come del resto in tutto il suo saggio, Elogio del Montecristo, in cui spiega passo dopo passo, cosa significa quello stile, quella ridondanza, quella ripetizione estenuante degli stessi aggettivi, ai fini del coinvolgimento del lettore in un’opera che deve dare esattamente quello che il Conte di Montecristo continua a dare ai suoi lettori, proprio attraverso quello stile. Definisce il romanzo come la dimostrazione che “narrare è un’arte”, e la prova che “le regole di quest’arte, sono diverse da altri generi letterari”. Ma soprattutto, Eco riconosce la grandezza di un’opera che è “capace di appassionare anche chi conosce le regole della narrativa popolare e si accorga di quando il narratore prende il proprio pubblico ingenuo per le viscere”. Dunque, la trasversalità tipica dell’arte.
E non serve neppure aggrapparsi all’altro degli argomenti madre degli ingenui detrattori dumasiani, che l’autore fosse pagato a parole e quindi più scriveva più guadagnava a scapito della scrittura e a vantaggio del portamonete. Poiché appunto, Eco, lo dice chiaramente, se fosse stato pagato per sottrarre parole, avrebbe creato un libro così ben fatto? No.
Possiamo noi lettori di buona volontà testimoniare le parole di Eco. Nella lettura di questo bellissimo romanzo, nessuno bada o si dice deluso del finale, nessuno si sofferma sulla trama lunga, corta, credibile o altro che sia, salti i periodi senza alcuna remora pur di arrivare a conoscere gli eventi, quanto piuttosto tutti ricordiamo la tensione verso il finale; l’ansia di ipotizzare eventi e scene; il modo delle vendette; chi è chi; e chi non è chi; tutta l’attrattiva della storia che ci ha tenuto incollati al libro assieme ai sentimenti di rabbia, furore, compassione, disgusto, tenerezza, ammirazione, sofferenza, sorpresa, paura che ci ha trasmesso la storia.
Ecco allora che il dito si sposta, piano piano, e lascia scoperti coloro che sentivano l’Eco delle proprie opinioni diventare autorevoli, e rimane solo una grande verità:
estrapolare è il nemico di comprendere. Una frase è il suo contesto, e così per un ragionamento che non può conservare una validità se lo si prende e lo si estrapola, perché il rischio di snaturare c’è, ed è immenso.
Prima di distruggere, come di apprezzare, occorre capire. Occorre leggere, e contestualizzare.
Si tratti di un’opera, un’opinione o una frase. Perché è dentro i contesti che c’è il significato, quello che le parole creano nella letteratura. E nessuno, più di un lettore vero, lo sa.
Diversamente facendo, si rientra in quella schiera, in quelle “legioni” che tutti ricordiamo come definì Eco, di avvezzi a padroneggiare i social network in cerca di un minuto di assoluta, vuota, inutile popolarità. Quel vorrei, ma non so, essere blasé.
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